Cari lettori, lasciate che vi raccontiamo della costruzione della chiesa. Pensate, eravamo nell’anno 1554 quando, su disegno del gesuita Pietro Provedi, ne fu iniziata la costruzione.
La chiesa fu aperta al culto solo nel 1624, ben settant’anni dopo.
Faremo cenno solo ad alcuni dei più prestigiosi artisti che adornarono la chiesa e poco altro aggiungeremo: le scenografiche pitture di Battistello Caracciolo nella terza cappella di sinistra; di Marco Pino da Siena, di Cesare Fracanzano e di Francesco Solimena il cappellone di Sant’Ignazio; di Francesco de Mura la sagrestia. I disegni di Francesco Solimena e di Cosimo Fanzago ancora oggi adornano il cappellone dedicato a San Francesco Saverio. Le statue a grandezza naturale sono di Pietro Ghetti e di Cosimo Fanzago.
Infine la facciata, del 1688, fu realizzata su disegno di Giovanni Domenico Vinaccia.
E ancora, cari lettori, l’imponente interno è a croce latina e unica navata, è sontuoso e ornato di marmi policromi del Seicento e del Settecento. L’altare maggiore custodisce una scultura dell’Immacolata commissionata da don Placido Baccher, che fu rettore del Gesù Vecchio dal 1806 al 1851. La statua fu molto venerata dal popolo e dalla nobiltà dell’epoca.
Dinanzi a tante e tali opere meravigliose molte sono le sensazioni, ma prima di manifestarle vorremmo lasciarci istruire dalle osservazioni di voi tutti.
Una delle migliori istituzioni che sia stata mai creata è certamente la Biblioteca Nazionale di Napoli, al tempo Real Biblioteca, aperta al pubblico nel 1804 in alcune sale del Museo Archeologico. Custode del sapere umanistico e scientifico, la Biblioteca conservava opere raffinate provenienti dalla collezione libraria farnesiana e preziose testimonianze manoscritte e a stampa provenienti dalle biblioteche conventuali o da importanti collezioni private. Divenuta Nazionale dopo l’unità d’Italia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento accrebbe il suo patrimonio librario, dai papiri ercolanesi agli autografi di Giacomo Leopardi. Per iniziativa di Benedetto Croce, fu trasferita a metà degli anni Venti nell’ala orientale del Palazzo Reale.
Chi oggi si reca in visita alla Biblioteca compie un affascinante viaggio nel tempo: saloni e sale dalle volte e dalle pareti affrescate o decorate con stucchi dorati, lunghi corridoi e piccoli ambienti, un tempo abitati dai Borbone e dai Savoia e dalle loro corti, ospitano scaffali lignei ricchi di volumi e sale di studio. Con un pizzico di fantasia il salone di lettura ritorna ad essere il grande salone da ballo. Le austere sale della Sezione Manoscritti introducono all’oratorio privato di Ferdinando II. La piccola sala gotica, le sale pompeiane, la sala Palatina, un tempo gabinetto scientifico del re, introducono alle sale del Fondo Aosta. La Sezione Lucchesi Palli, regno della musica e delle arti dello spettacolo, schiude i suoi segreti, restituendo il fascino della grande tradizione teatrale napoletana.
Questa biblioteca è fornita di una “quantità bastante di libri per tutte le scienze”, a dirla come nei primi anni del Seicento, quando Pedro Fernandez de Castro, viceré di Napoli, riformando gli studi universitari, volle la sua regolamentazione sul modello dell’Università di Salamanca.
Il Palazzo degli Studi, sorto a via Costantinopoli, viene inaugurato a lavori non ultimati il 14 giugno 1615. La “libreria”, aperta al pubblico due ore la mattina e due la sera “per comodo degli Scolari”, doveva essere gestita da un “Librajo molto intelligente ed esperto”, incaricato dell’ordinamento e della sorveglianza dei volumi “incatenati ne’ banchi” all'uso delle biblioteche rinascimentali.
Intorno alla metà del Settecento, Carlo di Borbone fece riprendere i lavori del Palazzo degli Studi; in seguito la sede universitaria fu trasferita nel soppresso Collegio Massimo dei Gesuiti. Era il 1777. A porre le premesse per un centro librario ad uso degli universitari, fu il governo di Gioacchino Murat che soppresse gli ordini religiosi requisendone i beni culturali.
Con la restaurazione dei Borbone, il grande salone al primo piano del Collegio del Salvatore diventa sede della biblioteca dei Regi Studi, e ad essa vengono destinati il patrimonio librario della Gioacchina e parte dei fondi delle biblioteche dei monasteri soppressi.
Nel gennaio del 1827 la Biblioteca è aperta al pubblico: l'avvenimento viene riportato dalla stampa ufficiale.
Diteci voi ora se, per tutti questi motivi e per altri che non abbiamo narrato, questo luogo è degno di essere visitato.
La chiesa conserva le reliquie di San Severino e di San Sossio, compagno di martirio di San Gennaro.
Il monastero dei benedettini e la nuova chiesa furono edificati per volere del re Alfonso d’Aragona. All’architetto fiorentino Sigismondo di Giovanni venne affidato l’incarico di costruire la cupola e al fiammingo Paolo Schepers di affrescarla, il secolo chiedetelo ai dotti.
Nel 1609 i benedettini affidarono a Belisario Corenzio la zona del presbiterio, mentre Cosimo Fanzago ne disegnò l’altare maggiore e la balaustra in marmi policromi.
Nella cappella di Camillo dei Medici, il sepolcro del fanciullo Andrea è pregevole scultura, la maestria di Pietro da Plata è confermata da tutti i contemporanei e per rendere l’opera ancor più singolare vi si unì la sublime penna del Sannazaro.
Una meraviglia tra le meraviglie napoletane, ne sia prova tutto ciò che ci è pervenuto: intarsi lignei ricchissimi, pavimenti preziosi in marmi provenienti dalla Spagna alla Turchia, metri e metri di affreschi.
Ancora una cosa vorremmo che ammiraste, il raro pavimento tardo-cinquecentesco della navata. Esso è formato dai sepolcri di importanti famiglie napoletane dell’epoca e ogni lapide è incorniciata da marmi policromi. I sepolcri costituirono per i benedettini un’importante fonte di reddito e di prestigio sociale.
Il Monastero di San Gregorio Armeno è tra gli edifici religiosi più antichi della città. Dicono alcuni antichi che fu costruito sulle rovine del tempio di Cerere, altri invece che la costruzione abbia avuto inizio nell’VIII secolo quando un gruppo di monache, in fuga da Costantinopoli, vi portò le reliquie di san Gregorio Armeno.
Nel 1009 al monastero fu aggregato quello di San Pantaleone, fondato da Santo Stefano II nella seconda metà dell’VIII secolo.
Vi vogliamo descrivere una chiesa, a cui non abbiamo ancora accennato, costruita dal Cavagna e dal della Monica e terminata nel 1580.
Questi esempi saranno sufficienti per dimostrarvi, cari lettori, che tutto ciò che potete ammirare è degno di un uomo pensante. La porta lignea intagliata cinquecentesca apre sulla navata unica, la pavimentazione marmorea è di Domenico Fontana, la realizzazione del soffitto ligneo intagliato e decorato con pitture è di Teodoro d’Errico, di Luca Giordano sono gli affreschi sulla controfacciata.
A metà Settecento la chiesa fu restaurata alla maniera rococò: gli intagli del soffitto della navata, le grate del coro delle monache, gli stucchi e le dorature interne lo confermano.
Nella quinta cappella vi sono le spoglie e le reliquie di Santa Patrizia, venerata dai napoletani a tal punto che la chiesa è oggi popolarmente chiamata con il suo nome.
È certamente vero che debba esserci sempre l’ombra accanto alla luce. Infatti, nella metà del Seicento, l’antica chiesa abbandonata e diroccata dedicata a S. Maria a Selice fu, da alcuni devoti, riedificata e dedicata a San Severo vescovo di Napoli.
Molti sono i cambiamenti che ha subito nel corso della sua storia: ospedale domenicano, archivio comunale, nuovamente chiesa, infine sala da esposizioni. I frati domenicani la riedificarono seguendo il disegno di Giovan Battista Conforto, maestro di muro rinascimentale.
L’interno sparì dopo essere stata sconsacrata: le pale d’altare, le sculture, le decorazioni… ma, miei cari lettori, vale la pena entrare per ammirarne l’ampia navata, gli alti soffitti e la cupola ornata da stucchi settecenteschi. È ancora in bella mostra, nella crociera a destra, il magnifico sepolcro di Gianalfonso Bisvallo, marchese d’Umbriatico che sotto Carlo V combatté a Tunisi.
La chiesa esisteva già nell’anno 1510 con il convento dei frati celestini, così dicono i documenti, ed era già dedicata alla vergine martire di Alessandria.
I libri raccontano questa storia, e questo è un fatto, che fu detta a formiello perché vicina agli antichi formali d’acqua.
La chiesa è tra le più importanti del Rinascimento, il portale del 1659 è del Picchiatti. La cupola è un esempio di un’inaudita bellezza e, come le antiche fonti indicano, fu la prima costruita in città.
La chiesa non era certo ritenuta di prestigio, infatti fra i possessori di cappelle non vi erano famiglie nobili, eccetto i fondatori, Zurlo e Aprano ma, strano davvero, la chiesa di S. Caterina a Formiello influenzò il disegno di tante altre chiese napoletane.
Verso la fine dell’Ottocento il nuovo coprì senza contrasto l’antico: la navata, unica a croce latina, gli affreschi delle volte e delle cappelle subirono radicali restauri, ma non ne modificarono le linee rinascimentali. L’ultimo tocco di modernità fu dato dal marmoraro Gandolfi nella metà del Novecento, quando realizzò il pulpito e il pavimento di cui le lastre sepolcrali cinquecentesche recavano stemmi, scritte e ornati rinascimentali. Al centro della navata la sepoltura delle consorelle della congrega del Rosario del 1625 reca le immagini di quattro donne inginocchiate che il calpestio del tempo, signori, non ha ancora cancellato.
Una cosa come quella che vi andremo a raccontare non la potrete vedere in nessun altro luogo al mondo.
Oltre il ponte della Sanità vi è il celebre Cimitero delle Fontanelle, ubicato in un’antica cava di tufo.
Quando entri qualcosa di mai visto apparirà allo sguardo!
Larghe e profonde caverne, l’una appresso all’altra, rischiarate appena dalla luce di qualche spiraglio, hanno aspetto triste e pauroso. Presentano da tutti i lati piramidi sterminate di ossa umane in bell’ordine e simmetricamente esposte. Queste piramidi sono l’opera del paziente lavorio dei devoti.
Ognuno di quella moltitudine di teschi è una storia e lo si può dire senza far torto a nessuno.
Di tratto in tratto, immagini di santi e crocifissi giganteschi ci parlano della pietà dei confratelli che hanno cura dell’ossario. Circa quarantamila ossa tutte rigorosamente anonime.
Le anime abbandonate, le anime pezzentelle, sono un ponte tra l’aldilà e la terra.
Vi era usanza, e forse ancora sopravvive, di scegliere tra le ossa un teschio e con l’aiuto delle maste, le popolane devote, di pulirlo e di adottarlo scrivendo il proprio nome con lapis copiativo. Lo si collocava in un luogo ben preciso in cui, alla successiva visita, si poteva ritrovarlo con faciltà. Al teschio era associato un nome, una storia, un ruolo.
Ancora oggi le maste raccontano le storie delle povere anime pezzentelle.
Reca senza alcun dubbio meraviglia la storia del convento di San Domenico Maggiore, ricco di preziose memorie.
Dove sorge ora la magnifica chiesa e l’ampio monastero, anticamente esisteva una abbazia di monaci con una piccola chiesa dedicata a San Michele Arcangelo di Morfisa.
Il gran cortile del convento è antico come la religione che vi si pratica e per più secoli è stato il tempio delle scienze, ovvero il ginnasio pubblico e la sede della regia università degli studi.
Fra i tanti insigni professori, nel 1272 vi insegnò anche San Tommaso d’Aquino con uno stipendio mensile di un’oncia d’oro.
Nell’esteso atrio del refettorio vi è una grande porta per cui si entra nel capitolo. Questo forma una bellissima galleria, maestosa e riccamente adorna. Tanto nelle mura quanto nella volta è tutto ornato di affreschi e bassorilievi di stucco. Il maggior decoro del capitolo è l’affresco che occupa il muro di fronte e rappresenta il mistero del calvario, opera di Michele Regolia, siciliano, di cui sono altri 14 affreschi distribuiti in tutte le riquadrature della volta e che rappresentano gli altri 14 misteri del santo Rosario.
Vi consigliamo di passeggiare negli ampi corridoi ammirandone la grandiosità e leggendone la storia.
Illustrissimi signori, veniamo a raccontarvi del campo di Carbonara in cui si tenevano giostre e tornei assai cruenti e il re Carlo II d’Angiò vi fece elevare un castello per meglio assistervi. Il castello fu poi donato a Landolfo Caracciolo, riservandosi di adoperarlo ogni qualvolta in quel luogo si svolgevano giostre e tornei.
Nel 1584 Giovan Antonio Caracciolo principe di Santobuono comprò quello che restava del castello e lo unì alle altre sue proprietà formando il grandioso Palazzo Caracciolo Santobuono. Lo splendore di tale dimora ebbe fine sessant’anni dopo, quando la plebe mise in fuga i signori che l’abitavano. Enrico Lorena duca di Guisa ridiede grande fasto al palazzo fino al giorno in cui dovette rassegnarsi all’idea di non diventare sovrano di Napoli e lo abbandonò.
Stimabilissimi signori, Palazzo Caracciolo è un arsenale di tutte le risorse necessarie alla beatitudine della vita terrena.
La memoria tangibile di Annalisa Durante è Piazza Forcella, teatro del popolo, luogo di incontri culturali.
Qui la passione per la verità e l’ascolto della memoria uniscono gli uomini e la loro esperienza in un incontro costante.
La dimensione della cultura svela la fatica e la bellezza dell’esperienza umana in una continua ricerca della verità per ricordare all’uomo che nasce dal bello e dal giusto e prosegue nel suo tempo.
Il Teatro Mercadante nacque come Teatro del Fondo, così lo hanno riferito a noi in molti. Fu costruito col danaro della Cassa Regia, istituita all’indomani della cacciata dal regno dei Gesuiti.
Gli avvenimenti sono riportati da diverse fonti, e quindi anche da noi trascritti, per non essere notati di trascuraggine.
Su disegno dell’architetto Francesco Securo, seguace di Ferdinando Fuga, il teatro fu costruito nel 1778 e inaugurato l’anno dopo con L’infedele fedele di Giovambattista Lorenzi, musicata da Domenico Cimarosa. Ospitò gli spettacoli eroici e la commedia giocosa, i balli grotteschi e la concertistica minore, poche commedie liriche e gare melodrammatiche. Nel 1799 fu rinominato Teatro Patriottico e inaugurato con l’Aristodemo di Monti.
Dal 1870 il teatro fu dedicato al compositore pugliese Francesco Saverio Mercadante. Con l’arrivo del compositore Giacomo Rossini, il Mercadante contribuì, al pari del Teatro San Carlo, al rinnovamento del repertorio musicale.
Il teatro poggia su una muratura di fondazione a forma di ferro di cavallo e l’interno conserva le impostazioni di Francesco Securo, la classica struttura dei teatri dell’epoca. Un fondo pittorico raffigurante Napoli marinara dipinta da Francesco Galante copre la volta, e la facciata fu rifatta nel 1893 dall’ingegnere Pietro Pulli.
Il Mercadante ospitò nel 1914 una discussa “Serata Futurista”. Qualche anno dopo, suoi prestigiosi ospiti furono Marta Abba e Luigi Pirandello.
Il mondo può a buon diritto guardare con attenzione al Mercadante per le sue eccellenti rappresentazioni.